Leopardi e lo spauracchio dello sfigato

Leopardi sfigato?

Come si fa a rappresentare in un film la grandezza di un’anima?… Mostrando le azioni, si potrebbe rispondere.

E se quest’anima è imprigionata in un corpo malaticcio che non le consente le gesta che il cinema (specie quello di cassetta) è abituato a rappresentare; se le azioni di quest’anima sono i suoi conflitti interiori, la contemplazione del reale, i ragionamenti su di esso e la ricerca del significato dell’esistenza?

Io rispondo: non è possibile. È per questo che il film su Leopardi sta suscitando reazioni leopardi 2controverse: critiche positive e sarcastiche stroncature. Chi sperava di veder vivere, sia pur con a prestito il corpo d’un attore, il Leopardi letto, studiato, amato e nel quale a tratti si è identificato, è rimasto deluso; ma è la delusione di chi pretende di inebriarsi di profumo con un mazzo di rose dipinto.

Chi s’aspettava il capolavoro culturale si è trovato di fronte la tristissima vicenda d’un uomo sempre più malato, sempre più gobbo ed impossibilitato a vivere le esperienze che tutti fanno e che, a chi è sano, appaiono ovvie e legittime.

Chi non s’aspettava niente, forse si è goduto un film ben fatto, ben recitato, a parte alcune defaillance nella declamazione dei versi del poeta (l’Infinito è recitato con un tale contorcimento di corpo e lingua che il naufragare nel mare dei ricordi appare doloroso invece che dolce) che ha il merito di aver attirato l’attenzione su un personaggio che la maggior parte degli studenti trova troppo triste e liquida con l’aggettivo “sfigato”, da intendersi nel senso letterale del termine.

Non potendo rendere appieno la grandezza dell’anima e dell’intelletto di Leopardi, il ritratto che emerge dal film è, quindi, quello del prototipo dello Sfigato, spauracchio della maggior parte dei liceali maschi in piena tempesta ormonale.

Leopardi sfigato?

La visione dello Sfigato può essere insopportabile per qualcuno e spingerlo così a parodiare velenosamente il film, reo di aver proposto degli stereotipi e luoghi comuni: lo sfigato-voyeur che osserva la bella ragazza dalle spalle scoperte che tesse la tela davanti alla finestra aperta e poi corre in bagno a sfogare l’eccitazione; lo sfigato-con-l’amico-tombeur che lo sorprende in intimità con donne diverse, fino a quella che piace anche a lui; lo sfigato-vergine che viene spinto dall’amico-tombeur in un bordello di Napoli che sembra una malabolgia dantesca e dove viene deriso da un gruppo di ragazzini accorsi a spiare la sua performance.

Lo Sfigato è così maldestro che viene riacciuffato subito quando tenta di scappare e l’immagine del padre seduto a cassetta al posto del cocchiere, anche se improbabile, è molto efficace (ricordiamoci che il cinema ha un suo linguaggio e certe scene standard sono come le congiunzioni e le preposizioni del parlato).

Lo Sfigato è sempre sotto esame e non può quietare nemmeno al caffè, pur avendo acquisito dei lettori ed una certa fama; lo Sfigato è psicologicamente perturbato, tanto che ha le allucinazioni di fronte al cadavere di Silvia (e chi l’aveva riconosciuta? Io mi immaginavo una Silvia-fanciulla-della-Recanati-bene tutta trine, merletti, camei e poltroncine dorate, non una ragazzotta vestita come una graziosa ostessa seicentesca) ed ha la visione di un moloch con fattezze femminili che si svela essere un simulacro della gelida madre.

Questa figura, la cui modalità di realizzazione richiama inequivocabilmente un videogioco, è
stata ferocemente criticata; a mio avviso, invece, è un’importante e moderna citazione psicoanalitica.
Nell’inconscio di taluni individui alberga realmente la figura della madre-strega, della madre di pietra o, per converso, il padre-orco o il padre-di pietra e non c’è nulla di banale in questo; ne è un esempio il Colosso di Sylvia Plath.

Attenzione, però, ad interpretare l’opera di Leopardi come una conseguenza di traumi, fobie e
malattie fisiche. Lo dice lui stesso nella scena a mio avviso più importante del film: “le mie opere sono frutto del mio intelletto, non della mia condizione”. Ciò significa che la sua non è poesia di sfogo nevrotico, le sue prose non sono lamentele per la sua sorte ma opere filosofiche; egli ragiona sulla vita e sulla condizione umana in generale partendo dalla propria esperienza perché non è uno scienziato. D’altra parte se una madre gelida producesse sempre un genio bisognerebbe educare le ragazze a diventare madri di quel genere… e se una madre gelida non fa un genio lo studio non fa uno sfigato, come vuole pensare chi cerca
un alibi alla propria svogliatezza.

Che Leopardi sia un poeta-filosofo si nota persino dai primi versi della celeberrima A Silvia, platonico amore giovanile (“Silvia, rimembri ancora/quel tempo della tua vita mortale…”) che sottintendono una domanda di ben altro tenore: la memoria di quello che si è stati permane dopo la morte?

infinitoÈ difficile, ripeto, rappresentare per  immagini un grande uomo, peggio ancora un genio: per quanto impegno e rispetto ci si metta, egli appare sempre un pazzoide stravagante, alla cui vista noi comuni mortali possiamo consolarci pensando “sarà stato un genio, ma… preferisco la mia mediocrità”.

Sorge quindi il dubbio che la mostra delle miserie dei grandi uomini sia un modo per consolarci delle nostre e giustificarci per la nostra pigrizia ed incapacità. Io credo però che la verità più probabile sia questa: non abbiamo più tempo né voglia di leggere gli autori del passato, così ci accontentiamo di film che in due ore, che taluni giudicano persino troppe, ci mostrano senza sforzo da parte nostra il minimo indispensabile sul personaggio; e nel caso di Leopardi il minimo più spettacolare è la sua debolezza fisica.

Il Leopardi sfigato è solo il frutto della superficialità o dell’ignoranza del fatto che l’uomo, inteso come genere umano, riesce a vedere la luce solo nel momento più buio e doloroso.

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